Discorso alla Città e alla Diocesi dell’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, che nella Basilica di Sant’Ambrogio, durante i Vespri per la solennità del santo patrono della città prevista domani, ha pronunciato la propria riflessione rivolta ad amministratori pubblici, politici e responsabili del bene comune che vivono e operano nel territorio della Diocesi di Milano. “E gli altri? Tra ferite aperte e gemiti inascoltati: forse un grido, forse un cantico”.
Di seguito una parte del discorso pronunciato da monsignor Mario Delpini e rivolto alla Diocesi di Milano per la solennità del santo patrono Sant’Ambrogio.
Questo discorso, chiamato solennemente “discorso alla città”, è l’intervento più istituzionale dell’Arcivescovo di Milano, grazie all’impegno che hanno profuso i grandi Arcivescovi che mi hanno preceduto e grazie all’attenzione che gli uomini e le donne delle istituzioni hanno rivolto a quegli interventi. È un momento istituzionale. Eppure non posso trattenermi da una confidenza personale.
Con il passare degli anni trovo sempre più insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo irrespirabile l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità e risentimento.
Perciò anche in questo momento solenne e in questa congiuntura singolare io vorrei dire le parole che mi sono più congeniali e condividere i sentimenti più profondi. Vorrei dire che il linguaggio di Milano e di questa nostra terra è la fierezza di poter affrontare le sfide, è la generosità nell’accogliere e nel condividere, è la saggezza pensosa che di fronte alle domande cerca le risposte, è la franchezza nell’approvare e nel dissentire, è la compassione che non si accontenta di elemosine ma crea soluzioni, stimola a darsi da fare, inventa e mantiene istituzioni per farsi carico dei più fragili.Milano e la gente che abita in questo territorio non si stupirà se metto nel titolo di questo discorso un punto di domanda: perché voglio fare l’elogio dell’inquietudine, voglio condividere l’aspetto promettente di un realismo che custodisce la speranza e che crede nella democrazia e nella vocazione della politica elogio dell’inquietudine.
Se si continua così, che cosa resterà di Milano? Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte della paura. La paura serpeggia nella città e nella nostra terra: è la paura di difficoltà reali che si devono affrontare e non si sa come; è la paura indotta dalle notizie organizzate per deprimere, per guadagnare consenso verso scelte d’emergenza, senza una visione lungimirante; è la paura dell’ignoto; è la paura del futuro. La paura induce a chiudersi in sé stessi, a costruire mura di protezione per arginare pericoli e nemici, ad accumulare e ad affannarsi per mettere al sicuro quello di cui potremmo aver bisogno, “non si sa mai”.Alle porte della paura bussa l’inquietudine con la sua provocazione: e gli altri? L’antico segno della civiltà imponeva un criterio: “prima le donne e i bambini”, cioè: prima devono essere messi in salvo quelli che non possono salvarsi da soli. Si è smarrito il segno della civiltà? Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte dei sogni che la città coltiva e realizza, la città che corre, la città che riqualifica quartieri e palazzi, la città che fa spazio all’innovazione e all’eccellenza, la città che seduce i turisti e gli uomini d’affari, la città che demolisce le case popolari e costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili. Alle porte della città bussa l’inquietudine e la sua
provocazione: e gli altri? Dove troveranno casa le famiglie giovani, il futuro della città? Dove troveranno casa coloro che in città devono lavorare, studiare, invecchiare?Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte dei centri di ricerca dedicati all’organizzazione del lavoro che controlla la produttività e ignora gli orari della famiglia, che controlla l’ottimizzazione delle risorse e ignora la qualità di vita delle persone, che prepara strumenti per valutare la sostenibilità ambientale e ritiene secondaria la sostenibilità sociale.
Alle porte dell’organizzazione del lavoro bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri?
Come potranno vivere quegli onesti lavoratori che si ritrovano a fine mese una paga che non copre le spese che la vita urbana impone loro?Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa ai palazzi dove si decidono i rapporti con gli altri Stati e si decidono le misure da adottare per gestire i destini dei popoli e i fenomeni migratori per rassicurare i cittadini e ridurre i fastidi. Ai palazzi del potere bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri? Come si può giustificare un sistema di vita che pretende il proprio benessere a spese delle risorse altrui? Come si può immaginare una civiltà che si chiude e muore e lascia morire popoli pieni di vita? Faccio l’elogio dell’inquietudine perché mi faccio voce della comunità cristiana, della tradizione europea e italiana, della lungimiranza sui destini della civiltà occidentale e, d’altra parte, non ho la pretesa di giudicare sbrigativamente o di disporre di ricette risolutive. Elogio l’inquietudine perché pensieri, decisioni, interventi siano attenti alla complessità e là dove sembra produttivo e popolare essere sbrigativi e semplicisti, istintivi e presuntuosi, l’inquietudine suggerisca saggezza e disponibilità al confronto, studio approfondito e concertazione ampia, per quanto possibile.
Redazione web
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