Coronavirus, il prof. Massimo Galli ha un motto: “Più test e meno plexiglass”.
Combattere i virus è il suo mestiere. Dà loro la caccia dai tempi dell’aids e ci riesce bene. Pertanto se ti dice di non abbassare la guardia è il caso di dargli retta. Lui è Massimo Galli, infettivologo di fama, direttore del dipartimento di scienze biomediche e cliniche dell’ospedale “Luigi Sacco” di Milano, che con il suo team di specializzandi in malattie infettive della Statale ha confermato a fine febbraio l’origine cinese dell’infezione andando a isolare i primi tre genomi completi del Sars-Cov-2 circolanti in Lombardia, nell’area di Codogno, ma che ha anche dimostrato come i genomi fossero inclusi in unico gruppo isolato in altri paesi europei come Germania e Finlandia e in paesi dell’America centrale e meridionale.
Si tratta dello stesso team che ha descritto i sintomi olfattivi provocati dal coronavirus e che ha studiato l’impiego del farmaco antivirale remdesivir e dell’inibitore di un recettore dimostratisi poi efficaci a trattare pazienti ricoverati in terapia intensiva.
In dipartimento con Galli al Sacco anche i colleghi Claudia Balotta a capo del team, ora in pensione che nel 2003 aveva isolato il virus della Sars e Gianguglielmo Zehender.
Premiati il 2 giugno dal Presidente della Repubblica Mattarella del cavalierato.
Con loro i ricercatori Arianna Gabrieli, Annalisa Bergna, Alessia Lai, Maciej Stanislaw Tarkowski. Galli ne va orgogliosissimo: “I miei ragazzi sono diventati tutti cavalieri, compreso due ragazzine di vent’anni”.
Più test. Meno plexiglass
E’ il motto con cui Massimo Galli sta intervenendo su tutti i media nazionali e non preoccupato com’è di non far abbassare la guardia dopo il “liberi tutti” delle manifestazioni di piazza di politici e sportivi. E allora suona l’”Attenti”.
Noi lo abbiamo incontrato per capire cosa stia succedendo sul territorio.
Perché in Lombardia continuano a verificarsi così tanti contagi?
“Per la Lombardia io ho usato la metafora delle lumache che escono quando piove. Finalmente le persone che sono riuscite a uscire di casa sono anche andate a farsi dei test per conto loro. Sono entrate nel loop di dover fare anche il tampone ed è per questo che sono emerse una serie di infezioni ch’erano chiuse in casa. Quindi non già infezioni nuove, ma soltanto una piccola minoranza sono infezioni nuove, in larga misura infezioni già da attribuire o a prima della chiusura o a qualcosa che è successa nelle famiglie durante la chiusura, quando magari il padre o la madre o uno dei figli si sono ritrovati in casa con l’infezione e l’hanno passata agli altri. Io ritengo che il mondo e le cose siano governate in larga misura dal caso. È una battuta per dire che in Lombardia vi è stato un caso che ha portato il virus e non altrove. Qui, e verosimilmente a partire dalla zona del lodigiano o al limite della bergamasca, con però una stretta relazione con il lodigiano, il virus ha potuto circolare per diverse settimane senza essere visto. Questo è stato un problema. Se fosse arrivato allo stesso modo in un’altra parte d’Italia sarebbe successa la stessa cosa”.
Come siamo messi su questo territorio? Regione Lombardia ha asserito che il paziente zero è di Arese
“Ciò che posso francamente dire sulla base di dati veri è che il virus sia arrivato in quella parte della Lombardia che è stata maggiormente colpita fin dall’inizio e non sulla base del focolaio di un singolo ospedale, anche se quello è stato importante, ma a livello di popolazione in generale. Dovrebbe essere arrivato lì verso gli ultimi cinque giorni di gennaio. Ha camminato di nascosto facendo decine di migliaia di infezioni in 4-5 settimane. Quando ce ne siamo accorti eravamo già in una condizione veramente molto difficile. Questo è quello che tutto sommato deve essere successo”.
I dati emergono dallo studio epidemiologico che state conducendo al “Sacco”?
“Con il mio dipartimento di scienze biomediche e cliniche dell’università di Milano, non a caso intitolato a Luigi Sacco perché appunto incardinato nell’ospedale Sacco, abbiamo iniziato e portato a termine una ricerca su vari comuni lombardi con il criterio dell’uso a tappeto del pungi dito: 4200 persone si sono fatte il pungi dito. Quelli positivi si sono sottoposti successivamente al test sierologico con il prelievo del sangue e al tampone. Il sierologico lo abbiamo fatto anche a un certo gruppo preso a caso per capire quanti non fossero identificati con il pungidito”.
E quanti scappano?
“Pochissimi. La stessa cosa, più o meno, la stiamo riscontrando sui manovratori di superficie dell’azienda tramviaria milanese, in varie altre aziende e nel paese di Carpiano, dove credo siamo già a oltre 1200 casi rilevati”.
E noi qui? Arese, Bollate, Garbagnate, Saronno…
“Ne abbiamo parlato con i sindaci di Bollate, Arese e Paullo e di mio non ci potrei mai arrivare perché non si tratta di paesi ma di città. Quei tre insieme fanno quasi 80mila abitanti. Credo. E un conto è fare il test su 4mila pesone come a Carpiano, un conto è farlo su 80mila”.
I sindaci le hanno chiesto di farlo a tappeto sui propri cittadini?
“Mi hanno chiesto di valutare questa possibilità tenendo conto del mio ruolo di ricercatore e professore universitario e in tale ruolo dovrei avviare un percorso che abbia un senso. L’ultima volta che ne abbiamo parlato con i sindaci avevo suggerito di partire identificando perlomeno un’area della città. Un quartiere particolarmente colpito, un settore dove poteva essere più interessante sulla base dei dati disponibili anche di persone ricoverate o morte verificare quale sia stata la diffusione. Su un comune di 20mila abitanti, cominciare magari con 2-3mila persone e poi vedere se in qualche l’esperimento poteva essere proseguito”.
In teoria sia dovrebbe impiegare questo periodo di interregno in vista dell’autunno per riorganizzarsi nella malaugurata ipotesi di un’ondata di ritorno virulenta del virus. Ci sono temi importanti da affrontare. Per esempio l’apertura delle scuole è opportuna o no?
“Vedo numerosi sindaci preoccupati, ma dovrebbe essere la Regione a fare molte cose che purtroppo non posso dire di veder fare”.
Cosa bisognerebbe fare Professor Galli?
“Non ho sul piatto una soluzione completa del problema. Però è un po’ che dico che vorrei più test e meno plexiglass. Ossia più diagnostica e meno soluzioni che finiscono per essere a carico direttamente dei cittadini, e in particolare di chi ha un ristorante, un bar, un esercizio commerciale, un’azienda, un’industria”.
Forse è anche un problema di una sanità territoriale che non c’è più. Fino a una ventina d’anni fa sul nostro territorio vi erano molti distretti socio sanitari e i medici di base erano sempre reperibili…
“La Lombardia è una regione che ha puntato all’eccellenza ospedaliera, magari del privato. Ha smantellato di fatto e non ricostituito la medicina del territorio e sta pagando lo scotto. Lo stiamo pagando tutti. Perché comunque siamo sempre in una posizione mediocre in fatto di vaccinazioni. Non solo dell’adulto, ma anche del bambino. Per come sono messe le cose adesso sarebbe addirittura difficile organizzare la distribuzione e la somministrazione dei vaccini. Siamo un paese dove si riesce a fare a stento il cinquanta per cento della vaccinazione antinfluenzale degli ultra sessantacinquenni. Gli aventi diritto contro lo pneumococco dovrebbero raggiungere il 70 per cento delle vaccinazioni. Siamo ad appena il 5 per cento”.
Se ora la Lombardia volesse riorganizzare velocemente dei luoghi fisici di diagnosi, osservazione e cura si potrebbe fare?
“Non lo so. Però i sindaci, pur non avendo una giurisdizione di fatto in tema salute, credo che abbiano il diritto dovere di sottolineare le carenze”.
I sindaci ne fanno un problema di competenza…
“Il concetto è che le responsabilità della sanità è in capo alla Regione che quindi ha i meriti e i demeriti della situazione che si è venuta a creare. Una situazione eccezionale per tutti, sì, ma evidentemente le cose non hanno molto funzionato. O la Regione rimedia o qualcuno chiede alla Regione di rimediare”.
Quello che sta succedendo di nuovo in Cina rischia di tornare di nuovo qui?
“Ovviamente sì, perché se c’è un vero internazionalista è questo virus che non ha confini. Finché non è risolto il problema a livello mondiale, il problema non è risolto”.
Quindi non dovremmo ritornare a viaggiare. Dovremmo continuare con il lockdown?
“Penso che sia impossibile continuare a vivere segregati. Quando ci fu l’aids e ci fu domandato come fare per non infettarsi tutti durante le operazioni, la risposta è stata: “Considerare tutti, compresa la tua nonnetta, come una persona che potenzialmente ha addosso il virus”. Se ci si organizza con meccanismi di attenzione, in cui si consideri che ovunque e in qualsiasi momento vi possa essere la possibilità che insorga, allora probabilmente si riesce a contenerlo. Questo non è mettere necessariamente milioni di persone in coda a fare un test sierologico. Questo è comunque organizzare le cose per cui alla minima comparsa di un qualsiasi sintomo ci si porti a testare e tracciare. Ciò per sottolineare la necessità di testare molte persone prima che rientrino alcune attività. E ci metterei anche la scuola, perché vi voglio vedere a mettere i bambini in una stanza distanziati: ci vorrebbero il doppio delle aule e poi? Quando arrivano, quando vanno via, quando vanno a fare ricreazione…”.
La soluzione sarà il vaccino. Ma quanto ci vorrà affinché arrivi e sia sicuro?
“Non sono in grado di fare previsioni. Ci stanno lavorando in molti e l’interesse è altissimo. Il primo che lo fa svolta dal punto di vista economico per la sua azienda e tutto il resto. Però non è così semplice”.
E’ giusto che anche gli asintomatici restino confinati per settimane?
“Le persone restano confinate fino a che non hanno due tamponi negativi. Cioè se uno ha un tampone positivo, sia sintomatico moribondo che asintomatico, rimane confinato fino a che non ha due tamponi negativi tossicologici. Il tempo può essere breve o lungo ed è la dimostrazione che ciascuno di noi reagisce contro il virus come può e come sa. C’è gente che non ha neanche un sintomo e si porta dietro il virus per sei, sette, otto, dieci settimane. Che poi il virus finale sia un virus di modesta capacità infettante è un dato di fatto. In sintesi bisogna continuare a proteggersi”.
La mascherina va indossata anche all’aria aperta?
“Va tenuta all’aria aperta dove il distanziamento fisico è meno di un metro”.
Ombretta T. Rinieri
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