Non è un caso che i suoi anni – avesse oggi la possibilità di essere qui a soffiare sulle candeline – restino a ruota ai Giri d’Italia disputati. Vincenzo Torriani, sabato 17 settembre, ne avrebbe compiuti 104. Giusto uno in meno delle edizioni disputate sin qui dalla Corsa Rosa.
Torriani, nato il 17 settembre 1918 a Novate Milanese, è stata una delle figure iconiche dello sport italiano del Novecento. Ma quel suo sguardo di ghiaccio e risoluto, quella sigaretta sempre accesa a incensare il suo ritratto, lo hanno portato a essere uno dei volti più riconoscibili della società italiana. Così che durante gli anni di direzione del Giro, venne sdoganato un accostamento tutto fuorché irriverente: “In Italia, solo due persone si affacciano dal tettuccio dell’auto: il Papa e Torriani”.
La figura di Torriani, morto nell’aprile del 1996, ha continuato a vivere negli appassionati di ciclismo e di sport, ma anche nell’omonimo Premio internazionale curato dai figli, testimoni di quella passione per “il ciclismo e per chi lo fa vivere”. Gianni, il primogenito di Torriani, oggi ricorda così sia il personaggio Torriani che il padre Vincenzo. Sottolineando i due ruoli della persona e la sua unicità.
Il ricordo di Vincenzo Torriani di Novate Milanese, patron del Giro d’Italia
Gianni Torriani, c’è tanta letteratura sulla storia di suo padre e dell’impronta lasciata nella gestione di quello che oggi si chiamerebbe management sportivo. Ma serve partire da Novate, suo paese natale, per raccontare e capire. Che rapporto aveva con la città?
Novate è sempre stata nel cuore di papà, sia come paese natale sia per gli affetti familiari. La casa paterna in cui è nato e vissuto sino al matrimonio è tuttora in via Repubblica 86 e ci vive mio fratello Marco con la sua famiglia. In quella casa abbiamo per tanti anni festeggiato il Natale e le ricorrenze familiari. Lui era molto legato a sua mamma, che per tutti noi era “nonna Luigia”, così come alle sorelle Antonia a Mariangela. Frequentava l’oratorio San Luigi e fu tra i fondatori della banda locale, la Santa Cecilia. È a Novate che ha sviluppato anche l’importante rapporto con la famiglia Boldorini: Giancarlo, suo cognato, gli fu molto vicino anche nella vita professionale.
Novate, ma non solo. Con le scuole a Saronno ha ricevuto una formazione in cui l’impronta cristiana è stata importante, visto che da adulto non farà mai mistero della sua fede e dell’educazione ricevuta. È così?
La formazione cristiana è stata fondamentale nella vita di papà. Dopo i primi studi al Collegio arcivescovile di Saronno, ha frequentato ragioneria al San Carlo a Milano. Con l’Azione Cattolica si occupava di organizzare manifestazioni teatrali e spettacoli per i giovani. L’incontro con il cardinale Schuster fu decisivo: a papà venne affidato l’incarico di occuparsi dell’aspetto ricreativo, del tempo libero e dello sport.
Ma restiamo sul territorio. Partire da Novate per diventare uno dei volti più noti d’Italia, quanto è stato difficile? Oltretutto in quegli anni, in cui si emergeva da una realtà segnata dalla guerra…
Nell’immediato Dopoguerra, quando aveva 27 anni, papà dovette decidere cosa fare: continuare gli studi oppure continuare a collaborare con l’attività del padre, che aveva un oleificio. L’incontro con Armando Cougnet della Gazzetta, nel 1946, fu determinante per la sua vita.
Possiamo dire che le “privazioni” e le difficoltà di quegli anni abbiano stimolato la genialità di suo padre?
Sicuramente. Non solo in quegli anni, ma lo avrebbero fatto anche dopo. Non si è mai arreso di fronte alle difficoltà e ha sempre cercato di superarle. Senza questo spirito non avrebbe mai potuto organizzare dal 1948 il Giro d’Italia, con strade ancora distrutte, la benzina che scarseggiava e il nostro Paese ferito dal conflitto.
Ma se questa è la genesi, gli anni a venire avrebbero messo ancora più in evidenza le capacità di Vincenzo Torriani. Dovesse menzionare i successi e le intuizioni che più hanno lasciato il segno nell’organizzazione del Giro d’Italia, quali sceglierebbe?
C’è l’imbarazzo della scelta. Ne indico alcune a mio parere più significative, a partire dal 1961, il Giro del Centenario dell’Unità d’Italia, con l’imbarco da Genova per la Sardegna e la Sicilia. Poi la scalata dello Stelvio nel 1953, il Gavia nel 1960, l’Etna, il Block Haus (una salita che fu una sua scoperta) e le Tre Cime di Lavaredo (1967). Ma anche l’arrivo a Venezia in piazza San Marco nel 1978, l’Arena di Verona nel 1981. Passando poi per il primo Giro europeo nel 1973 con partenza da Verviers in Belgio. Tra le altre sue invenzioni, mi piace ricordare anche l’inserimento del “prologo” a precedere la prima tappa del Giro d’Italia (nel 1971) e la Gran Fondo Milano-Roma alla conclusione del Giro ‘79.
Una persona è anche il frutto degli incontri che ha. Poco fa parlava degli incontri di suo padre con il cardinale Schuster e con Armando Cougnet, che rappresentò un punto di svolta. Ci sono altre figure che hanno lasciato il segno in suo padre?
Come detto, fondamentale fu l’incontro con Cougnet, che lo indirizzò nella carriera di organizzatore, professione che all’epoca di fatto neanche esisteva. Molto importante fu poi l’amicizia con il giornalista Bruno Raschi e il direttore della Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò. Ma anche con Sergio Zavoli, l’uomo del Processo alla tappa.
Se partiamo dall’importanza degli incontri, nella vita di una persona, cosa ha significato per lei e suo fratello Marco vivere con un padre come Vincenzo Torriani?
L’insegnamento più importante per noi è stato quello della sua testimonianza di padre, nonostante i numerosi impegni e il tanto tempo trascorso fuori casa. La famiglia è sempre arrivata prima di ogni cosa.
Quanto è saldo oggi il legame della vostra famiglia con il territorio?
Non posso non essere legato ai luoghi dove sono cresciuto, dove ho trascorso tanti momenti belli della mia vita, dove ho coltivato le amicizie. E ancora più forte è il legame che coltiva mio fratello Marco, che come dicevo vive nei locali della casa paterna.
Come si dice, però, gli anni passano. E anche per il ciclismo di suo padre sono cambiati i tempi. Sempre meno famiglie sono disposte a indirizzare i figli verso questo sport. Problema di dossi, strade insicure e infrastrutture mancanti o è più un problema culturale?
Io credo sia un problema culturale. Da una parte assistiamo al boom di vendite delle biciclette, perché il loro utilizzo lo si associa a tematiche importanti come la salute o l’ambiente. Dall’altra, non possiamo dimenticarci che pedalare è sì piacevole, ma che farlo per professione è faticoso. La fatica oggi si cerca di tenerla lontana, in bici come nella vita. Ma è faticando che si raggiungono i traguardi importanti.
Lei hai scritto un libro (“L’ultimo patron”, Ancora edizioni) che è un dialogo immaginario con suo padre. Se oggi lui fosse qui, cosa direbbe ai suoi concittadini e ai ragazzi che vogliono fare sport?
Nel libro che ho scritto c’è la sua storia, corredata da tante fotografie dei momenti più significativi dei suoi anni al vertice del ciclismo internazionale. Da uomo di sport inviterebbe i giovani a praticarlo, soprattutto per la salute.
E cosa direbbe a suo figlio Gianni, sempre attento nel tenere vivo il suo ricordo e i suoi insegnamenti?
Cosa direbbe a me? Mi direbbe… di fare il mio dovere di marito, di padre e di nonno. Penso sarebbe contento di ciò che facciamo noi figli per ricordarlo. Ma si renderebbe anche conto che la riconoscenza per ciò che ha fatto in quasi mezzo secolo di vita, purtroppo non abita le “stanze” che lo hanno visto protagonista.
S.A.
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