Una volta chi prendeva i treni delle Nord per andare a Milano a lavorare o a studiare viveva un’esperienza bellissima. Certo, non c’erano i vagoni confortevoli di oggi, in certi orari più ci si avvicinava a Milano e più i pendolari si specializzavano nell’assalto alla diligenza, spingendosi come animali per riuscire a starci tutti. I saronnesi erano più fortunati, perché spesso si sedevano, poi arrivavano i garbagnatesi, in piedi, a Bollate ci si cominciava a schiacciare per salire, ma i campioni erano i novatesi: i treni erano già strapieni, eppure loro riuscivano lo stesso a farsi spazio sfidando le leggi della fisica. Poi, una volta su, si apriva un altro mondo, fatto di gruppetti di amici, di persone che si vedevano ogni giorno e alla fine si conoscevano tutte. Si chiacchierava, ci si confidava, si sbirciava il giornale di chi (seduto) poteva sfogliarlo, a volte nascevano perfino storie d’amore…

Oggi, se salite su uno di quei treni da ora di punta, è tutto diverso: le compagnie sono sparite, la gente che dialoga è sempre meno. Quasi tutti hanno i loro smartphone in mano, navigano, chattano o si infilano le cuffiette per ascoltarsi in solitudine la loro musica. Sono i tempi nuovi, non si possono cambiare, è vero, ma chissà che qualcuno, leggendo questo articolo, lunedì in treno non chiuda il suo ipnotico telefonino, guardi in faccia la persona che ha davanti e le dica: “Buon giorno, sono anni che la vedo: le va di dirmi come si chiama?”.
Piero Uboldi
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