di Stefano Di Maria
Il gran finale de LA CASA DI CARTA è arrivato. Un finale che la suggella, se ce ne fosse ancora bisogno, come fenomeno della serialità mondiale. Il cerchio si chiude, ogni tessera del mosaico (i flashback su Berlino e il professore) va al suo posto, spiegando il perché dei piani delle rapine alla Zecca di Stato e alla Banca di Spagna.
Nella seconda parte dell’ultima stagione la serie targata Netflix mette sul tavolo le sue carte migliori. Ritornano la suspense, l’azione al cardiopalma, le strategie, la pianificazione. Ma anche il sentimento, quello vero, al limite della soap o della telenovela. Tuttavia la girandola di emozioni è tale che questo ingrediente, dopotutto, non stona: anche perché lo spettatore è affezionato ai personaggi, vuol sapere non solo se riusciranno a scappare dalla Banca di Spagna con tutto l’oro ma anche l’epilogo del triangolo fra Berlino, Stoccolma e Manila, così come il destino della relazione fra il professore e Lisbona.
Lo abbiamo scritto nelle nostre precedenti recensioni e qui lo ripetiamo: LA CASA DI CARTA chiede un tributo non da poco per chi ama le serie ancorate alla realtà e al possibile: la sospensione dell’incredulità, un pegno che bisogna pagare per godersi appieno anche questo capitolo conclusivo della saga ideata da Alex Pina. Il gioco del gatto col topo domina gli ultimi cinque episodi: le forze dell’ordine sono perennemente in procinto di arrestare la banda, che però si rivela sempre un passo avanti. E tutto grazie a quei piani orchestrati in modo maniacale da Berlino, dal professore e da Palermo.
In questo canto finale LA CASA DI CARTA dà il meglio di sé, congedandosi dal suo pubblico in maniera inaspettata, saldando il legame coi protagonisti in modo indimenticabile. Il messaggio di fondo è potente, anche se qualcuno potrà definirlo scontato: la banda del professore rappresenta la gente comune. Seguire ed emozionarsi con le sue imprese è per gli spettatori una forma di riscatto verso quel sistema i cui poteri forti – le banche, i Governi – hanno sempre la meglio sul popolo indifeso e assoggettato. Un sistema economico che sembra reggersi sulla riserva aurea dello Stato, ma anche questa – al pari degli stratagemmi usati dai rapinatori – è più un’illusione che una realtà.
E a sottolineare la voglia di rivalsa, ancora una volta, è la vibrante “O bella ciao”, riproposta come una ballad che commuove ed entusiasma a un tempo. La consapevolezza, dei protagonisti e la nostra, è che sia tutto possibile, che cambiare la propria vita può non restare un sogno, è qualcosa di possibile, di realizzabile. Ce lo sussurrerà spesso all’orecchio, ne siamo certi, la carezzevole voce narrante di Tokyo.
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