Lo scorso giugno mi trovavo in un locale in compagnia di amici per guardare insieme una partita dell’Italia agli Europei di calcio. Al momento degli inni nazionali, ho notato che c’era una sola persona, tra quelle sedute ai tavoli, che cantava (seriamente) l’Inno di Mameli: era un albanese. Sì, un uomo albanese così ben integrato che sentiva il dovere di cantare il nostro inno.

L’altro giorno l’ho incontrato di nuovo e, chiacchierando, mi ha detto una frase che mi ha colpito: “Una volta noi in Albania non avevamo la libertà di parola ma avevamo la libertà di pensiero, oggi invece (in Italia. Ndr) abbiamo la libertà di parola ma non la libertà di pensiero”.
Ho riflettuto molto su quella frase e trovo che sia profondamente vera: una volta nel Paesi sottoposti, direttamente o indirettamente, al totalitarismo sovietico, la gente non poteva esprimere liberamente le proprie idee, ma era abituata a pensare, guardare, ragionare e farsi una propria idea della situazione. Oggi invece viviamo in una società che ci condiziona il pensiero: possiamo dire tutto quello che vogliamo, abbiamo anche troppa libertà di parola, però alla fine parliamo di calcio, attori, telenovele, moda e della politica che ci passano i telegiornali. Bombardati come siamo dal conformismo televisivo, facciamo sempre più fatica a costruirci un nostro pensiero autonomo. Libertà di parola, ma non di pensiero.
Piero Uboldi
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