di Stefano Di Maria
Netflix ha pubblicato questo mese la seconda stagione di una serie sci-fi dal titolo BIOHACKERS, rinnovata dopo che il primo capitolo aveva incontrato i favori di pubblico e critica. Sono sempre sei i nuovi episodi, che si prestano al binge watching per durata (solo di mezzora) e azione.
Protagonista è Mia, una ragazza che ha un piano segreto per avvicinare e vendicarsi di una biologa di Friburgo che studia il Dna per curare le malattie genetiche: che cosa le ha fatto e cosa c’entra col passato della sua famiglia? L’avevamo lasciata, alla fine della prima stagione, rapita da una banda di criminali che operano per conto di qualcuno e la ritroviamo nel primo episodio che ha un vuoto di memoria: non ricorda nulla di cosa le sia successo negli ultimi tre mesi. E’ l’inizio di un incubo, fino a quando si ritroverà alleata della dottoressa di cui voleva vendicarsi per il male che aveva fatto ai suoi genitori. Mia è disposta a tutto pur di scoprire cosa le hanno fatto dopo il rapimento e ottenere giustizia.
Anche la seconda stagione di BIOHACKERS, produzione tedesca originale del colosso dello streaming, non ha grandi pretese se non l’intrattenimento e si lascia guardare come un lungo film diviso in capitoli. A dominare è la scelta degli autori di trasporre in campo biomedico la tradizionale figura dell’hacker informatico (quella tipica di MR. ROBOT per intenderci): qui, invece di conti correnti e dati sensibili, in gioco c’è la sperimentazione sulla vita umana. Un tema che in un altro contesto produttivo avrebbe potuto essere sviluppato diversamente, con un maggiore approfondimento della materia, ma non era questa l’intenzione. Tanto più che l’approfondimento psicologico dei personaggi lascia a desiderare e, a sprazzi, la serie presenta situazioni surreali: Mia è un’eroina che riesce sempre a sopravvivere, anche nei frangenti più complicati e difficili. I personaggi secondari, suoi compagni di appartamento, studenti legati al mondo della bioetica come lei, si confermano tutti singolari ed eccentrici: c’è una ragazza che tratta le piante per farle diventare luminose al buio e il suo compagno, che nel primo capitolo inseriva microchip sottopelle e sperimentava pillole che consentivano di non respirare sott’acqua, adesso fa attivare un drone con la potenza della mente.
Visto il finale, che apre la porta a una terza stagione, se proprio si vuol trovare una morale è confermata la stessa: fino a che punto può spingersi la sperimentazione medica, anzi biomedica, per evolvere l’umanità? E, cosa altrettanto importante, il fine giustifica i mezzi?
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