di Stefano Di Maria
Se ne sono viste tante serie che affrontano il tema del narcotraffico (da NARCOS c’è tutto un filone), però mai nessuna aveva contrapposto padre e figlio come DOM, produzione brasiliana di Netflix. Fra l’altro attingendo a piene mani dalla realtà: la vera storia di Pedro Machado Lomba Neto, un criminale che sniffava cocaina e comandava una banda che svaligiava le case dei ricchi a Copacabana. Morto a 25 anni, aveva distrutto la vita della sua famiglia, ridotta sul lastrico, senza che né i genitori né la sorella potessero fare nulla per fermare il suo stile di vita autodistruttivo.
L’originalità della serie, dicevamo, sta nella scelta di raccontare anche la storia del padre Victor, un ex poliziotto che aveva combattuto il narcotraffico dall’interno: un uomo di grandi valori, completamente agli antipodi del figlio, ma al quale era legato da un tale amore da essere disposto a tutto pur di salvarlo. A nulla erano valse le cliniche di riabilitazione, dove Pedro entrava e usciva a ripetizione: ricadeva sempre nella dipendenza da cocaina e nella ricerca del brivido che trovava solo nel furto. A poco più di 20 anni veniva descritto dai tabloid come il ladro playboy e ragazzino, divenuto il terrore della gente altolocata di Copacabana. Attraverso i flashback, che viaggiano su due piani temporali oltre al presente, scopriamo un giovane Pedro che fin da adolescente comincia a fare uso di coca a Rio de Janeiro, e il 20enne Victor che vorrebbe fare il sommozzatore ma finisce con il lavorare per la polizia sotto copertura nelle favelas.
DOM è carico di scene adrenaliniche, di tensione e violenza come già abbiamo visto in altre serie dello stesso genere. Forse è questo il suo limite: al di là del rapporto tra padre e figlio, sempre su binari diversi ma destinati a incrociarsi, non offre molto di più rispetto al panorama seriale sul narcotraffico. Ma è ben recitata, anche se talvolta gli attori sembrano lasciarsi prendere la mano dalla concitazione quando non è necessaria, e la costruzione della storia riesce a suscitare l’empatia dello spettatore verso i due protagonisti, interpretati da Gabriel Leone e Flávio Tolezani.
La fotografia predilige i colori accesi delle favelas, ma anche gli effetti psichedelici delle notti brasiliane, fra locali e strade trafficate. Regia e montaggio si concentrano sulle scene a effetto, fra primi piani che indugiano sulle sniffate di Pedro e sparatorie al limite dello splatter. Certo qualcun altro avrebbe raccontato diversamente la storia di Pedro, magari senza peccare di spettacolarità, ma i registi Vicente Kubrusly e Breno Silveira hanno girato una loro versione che – volendo vedere il lato positivo – fa riflettere: sulle conseguenze della tossicodipendenza per le persone care e su quanto sia difficile da estirpare la corruzione politica e delle forze dell’ordine in Sudamerica, dove la polvere bianca detta le regole più che altrove.
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