di Stefano Di Maria
Con gli ultimi quattro episodi, rilasciati a inizio gennaio da Netflix, si chiude la serie THE CLUB (KULUP il titolo originale), dramma turco a sfondo storico ambientato nella Istanbul degli anni Cinquanta, quando la città era in pieno fermento culturale e sociale, coi nightclub che aprivano uno dopo l’altro, le lotte di classe e la difficile convivenza fra religioni.
La prima parte di quella che sembra essere l’unica stagione si concludeva con la figlia di Matilda, Rasel, che lasciava la città per andare a vivere in Israele, lontano dal padre del bambino che portava in grembo. La madre Matilda era invece rimasta in città, a lavorare nel club dove cantava il famoso artista Selim Songür. Nella seconda parte tutti i nodi verranno al pettine: Selim dovrà fare ancora di più i conti col non poter esprimere la sua omosessualità, che contrastava con la virilità dell’epoca, diventando autodistruttivo; la vita di Matilda, che da ragazza uccise il fidanzato perché rovinò la sua famiglia, sarà nuovamente sconvolta dal suo passato, che non riesce a lasciarsi alle spalle; la figlia Rasel, cresciuta in un orfanotrofio, verrà a patti con la consapevolezza che l’amore di un uomo musulmano, per lei ebrea sefardita, è impossibile; Orhan, il capo del club dove ruotano le story-telling, si troverà a non poter più nascondere di essere greco, rischiando di perdere tutto. Sì, perché quella era l’epoca delle forti contrapposizioni fra greci e turchi, che fra l’altro si contendevano Cipro.
Una tensione che culminò la notte del 6 settembre 1955, quando per le strade di Istanbul si scatenò l’inferno, coi turchi che assediavano case e negozi dei greci (la miccia fu la falsa notizia che fosse stato commesso un attentato nella casa dell’ex Presidente della Turchia Atatürk). E’ qui che THE CLUB vira sulla narrazione storica, abbandonando i toni soap che fin lì lo dominavano, sottolineati da potenti colonne sonore.
La serie ha il merito di evidenziare, attraverso le vicende dei protagonisti, quanto le differenze culturali, religiose e sessuali fatichino a convivere nei rapporti d’amore e d’amicizia, nonché nel tessuto sociale avvelenato da paure e pregiudizi nei confronti del diverso. Quel che resta, al netto di una narrazione a tratti melensa e melodrammatica, è uno spaccato della società turca della metà del Novecento, per altro ben ricostruita attraverso le location e i costumi: un microcosmo di ricchezza e povertà, ingiustizie sociali, lingue e culture, nel quale cominciava a farsi strada l’emarginazione del diverso, di chi non era musulmano e, immigrato da altri Paesi, a Istanbul voleva ricostruirsi una vita.
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