L’evento è di quelli che noi giornalisti abbiamo il dovere di frequentare per obbedire alla legge che impone, a chi fa il nostro mestiere, l’obbligo di una formazione professionale costante.

Nell’aula 211 dell’Università Statale di Milano va in scena il corso “Come i media trattano l’argomento migrazioni e minoranze”, con la partecipazione di docenti universitari e colleghi esperti sul tema. L’assunto di base è: ci sono giornali brutti, sporchi e cattivi (quasi tutti, a detta dei relatori. Partendo da “Libero”, fino al “Corriere della Sera” e alla “Stampa”) che seminano odio per il semplice fatto di impiegare nei propri articoli di cronaca parole “inappropriate”.
Quali? “Immigrato clandestino”, ad esempio. Se la persona in questione commette un reato, che so, uno stupro o una rapina, il giornalista che lo definisce “immigrato clandestino” o “rom” (anche se lo è) fa della cattiva informazione. “E perché mai?”, ci si chiederà. Perché, spiegavano gli stessi studiosi e giornalisti coscienziosi, “indicare, senza che ce ne sia motivo, la provenienza, o peggio ancora, la ‘razza’, di una persona che commette un reato, vuol dire solo creare pregiudizi errati e risentimento”. Quindi, meglio usare parole come “uomo”, “donna”, o meglio ancora “persona” (quando l’indicazione di genere potrebbe creare un ulteriore pregiudizio nei confronti dell’essere uomo o donna).
Applausi e complimenti, alla fine della lezione, con la consueta firma del foglio di partecipazione. E il diritto sacrosanto di informare le persone sulla realtà? Beh, quello l’abbiamo visto abbandonare l’aula molto prima. A gambe levate.
Alberto Finotto
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