di Stefano Di Maria
Dopo SANPA – LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO, la storia di Vincenzo Muccioli e della sua comunità per tossicodipendenti (qui la nostra recensione https://www.ilnotiziario.net/wp/2021/01/11/sanpa-luci-tenebre-san-patrignano-recensione/ ), è approdata su Netflix la nuova docuserie VANNA. E’ la storia della televenditrice più famosa d’Italia, Vanna Marchi, il cui impero costruito con le televendite è crollato dopo lo scoop di Striscia la Notizia: è stato il famoso programma di Antonio Ricci a sollevare il velo sul sistema di truffe che stava dietro alla vendita di amuleti e numeri della fortuna comprati a peso d’oro da persone così credulone da versare milioni di lire. Fino a quando il castello di illusioni crollò portando alla condanna definitiva di madre e figlia, dopo anni di processi, in Cassazione.
WANNA – LA DOCUSERIE SULL’IMPERO DI WANNA MARCHI
Lo stile aggressivo con cui Wanna Marchi si rivolge agli spettatori è il marchio di fabbrica degli show in cui propone creme dimagranti miracolose. Per tutti gli anni Ottanta la sua immagine e i suoi prodotti impazzano, rendendola ricchissima e famosa, insieme al suo unico e vero braccio destro, la figlia Stefania. Le due passano dal successo alla clamorosa caduta di inizio anni Novanta, quando “l’impero Wanna Marchi” si sgretola e le scaraventa sul lastrico. Un disastro che scatena nelle due la voglia di riscatto.
Dopo avere venduto l’illusione della forma fisica perfetta, passeranno a commercializzare l’unica cosa che nessuno aveva mai pensato di vendere: la fortuna. Creme dimagranti e antirughe lasciano così il posto ad amuleti e numeri benedetti venduti insieme al Maestro di vita Do Nascimento. Questa strepitosa macchina da soldi si sarebbe poi rivelata essere altro: una truffa clamorosa, realizzata grazie a una complice insospettabile, la televisione. Una vicenda fortemente legata al territorio seguito dal Notiziario: la pensionata che si prestò per smascherare il sistema era Fosca Marcon, di Solaro.
WANNA – LA RECENSIONE
Scritta da Alessandro Garramone e Davide Bandiera, diretta da Nicola Prosatore e prodotta da Gabriele Immirzi per Fremantle Italia, la serie si mostra fin dal primo dei quattro episodi come il tentativo di ricostruire la vicenda da tutti i punti di vista: delle vittime, dei televenditori dell’epoca, delle protagoniste Wanna e Stefania e delle loro dipendenti. Ne esce un ritratto accurato, anche se per ovvie ragioni non può che guardare benevolo soltanto ai truffati. A madre e figlia è stata comunque data la possibilità di dire la loro, di difendersi e spiegare come tutto ciò sia stato possibile. Ascoltando le 22 testimonianze, circa 60 ore di interviste e immagini tratte da oltre 100 ore di materiali d’archivio, è evidente che l’obiettivo (centrato) del creatore Alessandro Garramone è ricostruire gli eventi in modo fattuale e accurato, dipingendo un mondo – quello delle televendite degli anni Ottanta – che non c’è più e che a modo suo ha fatto la storia recente dell’Italia.
A nostro giudizio, al di là delle colpe, dalla docuserie emergono due aspetti. In primo luogo la disperazione di chi si sentiva così solo da affidare la propria vita a talismani e numeri del lotto, per cui era disposto a dilapidare i propri risparmi: Wanna e sua figlia vendevano illusioni e non lo negano, “perché la gente aveva bisogno di questo”. Spicca poi il loro legame morboso: hanno vissuto l’una per l’altra, condividendo successi, gioie e dolori, addirittura la cella del carcere. Di fatto Vanna ha solo un rammarico: spera di essere perdonata da Stefania “perché a causa mia non si è fatta una vita sua”. Ma la figlia – è palese – quella vita l’ha voluta, tanto che, depurata da qualche errore, la rifarebbe.
Voto: 3 su 5
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